
Medaglia medaglia medaglia...
Ciao piccola papera migratrice!
Ore 14.59 di un normalissimo sabato pomeriggio...
Sono in ufficio e, se non fosse per le solite chiamate tutto sarebbe mortalmente noioso...
Ci siamo sentiti ieri sera tramite sms...a quest'ora sarai circa a metà delle tue ore di pulman...
Io stanotte ho dormito poco...ieri è stata una giornata terribile e stressante...
Scadenze, cazziatoni immeritati, decisioni non capite...
La porta della cucina si ricorderà sempre di come l'ho sbattuta...
Oggi va meglio...ho risolto...
Che bello domani rientri...
Sono emozionato, contento e impaurito...
Che bello, piccola QUA!!!!!
Oggi, navigando sulla rete ho trovato un articolo dedicato a Pantani scritto da un giornalista di Bicisport durante il Giro D'Italia 2003 (l'ultimo giro di Marco). Te lo copio perchè è troppo bello!!!
Ti voglio bene piccola miao...
MAGNANO IN RIVIERA – Sono le otto e mezza e la hall è semideserta, quando Pantani la attraversa e punta verso il ristorante. Sono passate tre ore dall'arrivo sullo Zoncolan, la serata è mite e la strada una processione verso Pordenone. Il pavimento è di marmo, i tavoli di cristallo, i divani di velluto chiaro. Marco guarda intorno e si avvicina, con le mani nelle tasche e lo sguardo apparentemente distratto. Una stretta di mano e poi accetta di fermarsi per due parole. Dicono che sia cambiato, lo vedremo presto. Basta una battuta: oggi sembravi Pantani... “Quasi” rsiponde. E contemporaneamente si alza sulle punte ed esplode in un sorriso radioso, leggero, atteso e inaspettato, coinvolgente e finalmente aperto.
Dopo averlo visto firmare autografi nel bagno di folla, rispondere alle domande di ogni intervista, schierare i compagni sulle montagne, soffrire sul Terminillo, lottare sullo Zoncolan e rallegrarsi al traguardo, il sorriso è la conferma: se non è già tornato, il vecchio Marco è prossimo al ritorno. E questo, a costo di passare per tifosi o illusi, per un istante ci fa drizzare i peli sulle braccia. Mancano venticinque minuti alle nove del 22 maggio. Come accadde già dopo la tappa di Briancon nel 2000, il 6 giugno, anche di questo giorno non ci dimenticheremo facilmente.
E' successo che sulla salita più dura del Giro, Pantani ha fatto il Pantani. O quasi, come dice lui, perchè in una tappa come questa Pantani avrebbe staccato tutti. Nessuno osava dirlo, ma stanotte l'avevano sognato in tanti. E' successo che quando il gruppo ha attaccato lo Zoncolan, la Mercatone Uno s'è messa in testa. E quando Simoni ha aperto il fuoco, decimando il gruppetto e piegando Casagrande, alle sue spalle Pantani s'è trovato spalla a spalla con Garzelli, in una lotta che di metro in metro si è spinta ai confini del dolore. Avremmo voluto che foste lì, a 1700 metri dall'arrivo, quando sono passati, con il collo teso, il sedere indietro e le braccia incordate come rematori. Li guardavamo attraverso il mirino della reflex ed era tanto lo stupore che per poco ci sfuggivano. E' successo che a un certo punto Pantani è scattato in faccia a Garzelli, anche se poi non ce l'ha fatta a reggere. E quando Garzelli l'ha passato, Marco s'è messo a ruota, ha stretto i denti fino a farli sanguinare e dopo venti metri l'ha passato ancora e così fino in cima.
Seduto sul bordo e con i gomiti sulle ginocchia, non sta nella pelle. Parla come ha sempre fatto quando aveva sensazioni convincenti, soppesando ogni parola, ma questa volta a stento: più realista dei tifosi, a metà fra la voglia di promettere e la consapevolezza che è presto. “Ma che non si possano dare dei distacchi perchè la strada è troppo ripida – sorride bonariamente – non mi sembra tanto giusto. Se uno è capace di rilanciare, i distacchi ci sono, eccome. Simoni ha fatto due volate. La prima per allungarci, la seconda per staccare Casagrande. E poi è rimasto lì. Lo scalatore invece scatta a ripetizione. E' andato forte: più di me e più di tutti gli altri. Ma non è andato fortissimo”.
Ieri avreste dovuto vederci. Giravamo come trottole da un albergo all'altro. Era caduto Cipollini. C'era Casagrande in crisi. E c'erano Simoni e Garzelli che s'erano dati appuntamento sullo Zoncolan. E così, per seguire tutti senza dimenticare nessuno, eravamo passati davanti all'albergo della Mercatone senza rallentare, pensando a quanto fosse strano non fermarsi prima del tappone. Soltanto un paio d'ore più tardi, dando ascolto al cuore e poi al buon senso, avremmo parcheggiato dietro al camion giallo, ficcando il naso nel lavoro dei meccanici. Poche parole, gesti rituali. Marco stava cenando, la sua bici era pronta con il 39x28 e da lì a poco l'avrebbero portata in camera, perchè così aveva chiesto. Poco fa, nel piazzale buio, dopo aver parcheggiato, ci siamo trovati a parlottare con Amadori, immobile e silenzioso in un angolo, fra le zanzare e una sigaretta. “Il 28 non lo voleva – mormorava sornione – poi è venuto a dirmi che se davanti avesse avuto il 38... Certi sforzi gli mancano da due anni, ma credo che sullo Zoncolan abbia fatto una grande cosa. E se proprio deve smettere, deve farlo a questi livelli. Questo è il nostro obiettivo: riportarlo al livello che gli compete. Anche l'anno scorso aveva fatto ottimi lavori, ma gli mancava la serenità interiore”.
E allora ti metti a pensare e gli dici diretto che se avesse corso il Trentino, sarebbe arrivato meglio al Terminillo e non avrebbe beccato 4 minuti. Poi quasi ti fermi, perchè il corridore non è una macchina e certi calcoli spesso traballano.... “Però forse è vero - fa, allungando le gambe - perchè sul Terminillo ero incatramato e non riuscivo a sudare. Mi accorgo che il fisico ancora non è a posto, trattiene i liquidi e non perde quel paio di chili che farebbero la differenza. Perchè ci manca poco, lo sapete che non ci vado lontano...”.
Nel dirlo ha abbassato la voce forse per il pudore o l'azzardo forse perché domani potrebbe soffrire o perchè l'orgoglio va bene per un giorno, ma potrebbe non bastare per il successivo. “Sono arrivato quinto, ma non ce ne sono quattro che vanno più di me in salita. Nel giro di pochi giorni, magari la terza settimana, se il corpo immagazzina bene il lavoro, lo vediamo. Al Sud andavo con i rapportoni per costruirmi la forza e facevo le volate per velocizzare. Ma non ho vergogna di dire che sono partito molto indietro rispetto agli altri”.
Lui parla, tu pensi. Sono pensieri da un millesimo di secondo, sensazioni, moti dell'animo prima che del cervello. Campiglio. I controlli. Le spiegazioni improbabili. L'accanimento. I processi. I giornali. Le risposte smodate. I blitz. Le sue colpe. Quelle dei magistrati. Gli amici. Gli ipocriti. “I bastardi” come li chiama Boifava. Gli è franato tutto addosso e non ce l'ha fatta a difendersi. E ora, passata la piena, vorrebbero che fosse tutto come prima. “Ma io – dice – ho bisogno di ritrovare sicurezza e la voglia di misurarmi con gli altri, perchè ho visto la possibilità di tornare ad un certo livello. Prima sentivo la fatica e non ero pronto a starci. Mollavo. Adesso è diverso, ma non posso pensare di ricreare tutto subito. Stare davanti mi mancava e oggi vedermi lì con gli altri, lo ammetto, mi ha fatto stare bene”.
Sono passate le nove, i compagni sono già a tavola, ma Marco non ha fretta e continua a parlare, anche se lo chiamano perchè la pasta è nel piatto. “In cima ero finito – ride beato – ma soprattutto ero convinto che non ci fosse più nessuno. Invece ad un certo punto m'hanno fatto la volata da dietro. Prima Nando (Casagrande, ndr) come se dovesse vincere la tappa e poi Popovych. Avrei potuto fare secondo. Mi bastava stare a ruota di Garzelli, farmi portare su e poi batterlo in volata. Ma ho preferito correre in modo generoso e gli ho dato una mano. Così abbiamo impedito a Simoni di guadagnare e la salita ci è parsa un po' meno dura. Se sentivo la gente? Certo, urlavano da matti e poi che pacche sulla schiena...”.
Poi si alza, lo fermiamo per la manica. Ce la fai vedere questa bici gialla nascosta in camera? Fa un sorriso, cambia direzione e ci dice di seguirlo. Si avvia attraverso la hall, poi nel corridoio. Entra nell'ascensore, ne esce e si mette in cerca della camera, ma non ricorda il numero. Poi la trova. La bici è poggiata al tavolo, con il livello, il metro e la squadra. La misura due volte al giorno e dopo l'arrivo controlla sempre se il manubrio sia ancora diritto. Fa un sorriso. “E' successo anche in cima allo Zoncolan - dice – e Martinelli era vicino e se ne è accorto. Gli ho detto: Martino, non ho ancora perso il vizio”.
Poi chiude la porta e punta l'ascensore. Sorride ancora. Una battuta sul casco e una sul colore della bici. Poi smette di parlare. Le porte scorrono, l'ascensore sobbalza e parte. Due parole dopo dieci secondi di silenzio: “Bene, bene”. Scompare verso il ristorante. E all'improvviso ci è tutto chiaro. Abbiamo capito perchè rideva in cima allo Zoncolan. Va bene la soddisfazione e va bene tutto il resto. Ma la verità è che oggi, per la prima volta negli ultimi tre anni, a sudare, sputare, sbavare, stringere i denti, far guerra, soffrire e inseguire ciò che un tempo era suo, Marco Pantani da Cesenatico, s'è proprio divertito.....
Enzo Vicennati – Bicisport Luglio 2003
Il blog da cui ho copiato l'articolo è questo
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